NOTE DI REGIA


Francesco Torrigiani

Cavalleria Rusticana - Savona, luglio 2017

Note di regia

A Massim

 

o

Alberto Burri Il Grande Cretto, particolare, Gibellina

 

Cavalleria Rusticana è per me diventato nel tempo un lungo progetto di riflessione registica, iniziato nel 2003 a Trieste assieme al maestro Massimo De Bernart e proseguito col maestro Giovanni Di Stefano qui a Savona nel 2010 per approdare a questa nuova lettura che compiamo tutti assieme con il cast ed il maestro Alessandro D’Agostini. Così Massimo è un filo rosso, un maestro comune, una presenza feconda in tutti noi: a lui, alla sua intensa eleganza, alla asciuttezza delle sue letture di questa partitura mi piace - ed è bene - pensare ora che affronto di nuovo Cavalleria.

Nel solco di questo stile musicale, ricordo ancora una volta alcune riflessioni che su quest’opera hanno fatto studiosi e artisti sorprendenti, tra cui per primo addirittura Berg, che amava molto la partitura mascagnana o Savinio che definì “Wozzeck come la Cavalleria Rusticana dell’Europa centrale”. Villatico scrive, in Una questione malposta: Il verismo musicale:

 

«…diventa significativa un’opera come il Wozzeck di Alban Berg che, intonando nel 1925 (data della prima berlinese) un testo pieno del pieno romanticismo tedesco (1837), i frammenti di Woyzeck di Georg Buechner, perfettamente inseriti nel gusto del realismo del romanticismo europeo, …, ridisegna l’impegno politico e spesso satirico degli scrittori ottocenteschi in un rigorosissimo e quasi rigido impianto di griglie formali. In tal modo l’effetto realistico viene per così dire amplificato, esasperato: la severità contrappuntistica della scrittura musicale rafforza l’eccitazione insita già nei gesti teatrali creando un clima di perpetua tensione che accentua il carattere espressionistico dell’opera.»

Queste stime, questo amore, queste relazioni e queste attenzioni del mondo espressionista tedesco verso un lavoro verista da quale profonda essenza musicale provengono? Da un equivoco di fondo: poche frasi tra il cantato e il gridato, alcuni pur caratteristici elementi di teatro della verità, della realtà, hanno nella tradizione esecutiva celato altre verità di Cavalleria che a distanza di oltre un secolo, e sotto le lenti del teatro novecentesco, possono generare nuovi stimoli ad uno studio attento delle caratteristiche drammaturgico musicali del capolavoro mascagnano e farne un racconto tragico classico.

E se una regia parte, come spero sia riuscita questa mia, da una corretta analisi della drammaturgia musicale, si vedrà che Cavalleria rispetta molte delle caratteristiche della tragedia greca: un prologo iniziale dove attraverso la serenata di Turiddu si presentano gli elementi drammatici di fondo, cui segue una parodos del coro, e poi un’alternanza di episodi in cui i solisti portano avanti l’azione del dramma e di stasimi nei quali il coro contrappunta lo svolgersi dell’azione; anche l’azione esiziale - l’omicidio di Turiddu da parte di Alfio - è come nella tragedia classica celato agli occhi dello spettatore e annunciato da un messaggero, pur nella sintesi di una sola battuta, che diventerà un topos dell’opera: “Hanno ammazzato compare Turiddu!

I personaggi in scena hanno tempi e modi che solo superficialmente hanno a che fare con una quotidiana vita agreste - pur solarmente violenta e passionale - siciliana, ma sono direttamente discendenti dalla grandezza archetipica dei personaggi classici; essi sono trasferiti e ambientati in questo contesto contadinesco in modo tanto geniale da costruire ex-novo in Mascagni una idea della sicilianità che diverrà persino un luogo comune, come analogamente accade nel mondo di Sergio Leone - mi piace ricordare qui questo collegamento che era alla base della lettura savonese del 2010 -, il cui far west non è che un pretesto per racconti carichi di epos e di tragicità classica.

Questi collegamenti e queste riflessioni registiche arrivano - con questa mia ultima lettura che non è affatto una remise en scène - alle loro estreme conseguenze, all’acme di un’idea. Con il Teatro dell’Opera Giocosa abbiamo deciso di comune accordo, e considerando anche le ristrette possibilità dei teatri in questi tempi, di scommettere su questa visione classicamente tragica ed abbiamo posto il Coro in Orchestra, nel luogo in cui 2500 anni fa agiva, dando alle scene corali la massima rilevanza musicale. La scena - una cavea di teatro greco ferita da una lama obliqua - ospita dunque solo gli attori ed è il luogo simbolicamente metateatrale delle azioni di personaggi che dimenticano ogni colore localistico per assurgere al livello di archetipi teatrali delle passioni che incarnano. Un rito tragico strettamente imparentato con la Medea di Pasolini o con la Norma di Bellini (come nell’Inneggiamo che diviene quasi Casta Diva) nel quale la visione barbara, arcaica, mette in risalto la violenza dei sentimenti che muovono tutti i protagonisti; ciò è vero - con una ricchezza e una poliedricità tipica di ogni grande eroina femminile - soprattutto in Santuzza, il cui amore ferito fa scaturire una vera e propria eruzione lavica di violenze, d’implorazioni, di pianto o ferina femminilità, motore dell’azione di morte verso il suo personale Turiddu-Giasone. Santuzza, con la sua denuncia pubblica di un fatto che tutti sanno e tutti tacciono, arma in prima persona il desiderio di vendetta di Alfio, archetipo e condottiero della norma, della legge e delle buone regole (viene addirittura in mente la figura demonica del Commendatore Mozartiano), il quale, come un boia assoldato dal cuore tradito di Santuzza, “esegue” di sua mano il compito assegnatogli. E Turiddu cade: Turiddu alfiere della libertà del cuore, del potere della seduzione, eroe della luce e della giovanile energia, sposo ideale di quella Lola che - come l’Elena omerica - è la fresca bellezza che scatena una guerra di sangue. Chi piange per questa tragedia mossa dall’amore ferito? Chi resta a vivere l’ennesimo dolore del proprio ventre? La grande madre terra, quella Mamma Lucia che dalla terra compare e nella terra finisce, che assiste dall’inizio alla fine al dramma che si consuma. Quella terra che - come nel grande Cretto di Burri a Gibellina - è squarcio assolato, in questo caso percorso da un fiume di sangue che come un vero e proprio enkyklema chiude il racconto.

Togliere la storia che andremo a raccontare da un contesto storico predefinito quale quello della Sicilia di Verga, e trasportarla in un tempo e in un luogo mitico ed epico, quale quello della tragedia greca, è - in ultima analisi e al di là delle prevedibili forzature testuali di cui siamo coscienti - un mezzo per raccontare ad ogni spettatore di oggi ciò che da sempre e per sempre è vero: le grandi passioni corrono nel profondo, e quando sono costrette ad emergere tracimano i limiti del “vivere civile” e sconvolgono le vite degli uomini.

Savona 22 luglio 2017

Francesco Torrigiani

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