Trama


Michele Olcese

ATTO UNICO
In un monastero, sul finire del XVII secolo. Da sette anni Suor Angelica, nata in una famiglia aristocratica, ha abbracciato la vita monastica per espiare un peccato d’amore: frutto di quel peccato un figlio, strappatole alla nascita e di cui lei, da allora, non ha notizie.  Le giornate nel monastero passano lentamente, scandite soltanto dalle campane che regolano, inflessibili, la vita di clausura. Due converse vengono punite per il ritardo, Suor Osmina viene rinchiusa nella sua cella per avere nascosta due rose nelle maniche. Solo Genovieffa mostra allegria, entusiasta alla vista di un raggio di sole: solo poche volte infatti, a causa dei rigidi orari delle funzioni, alle suore capita di assistere al tramonto. Tre sere, sempre di maggio. Le monache si rendono allora conto che è passato un anno dalla morte di una di loro e Genovieffa le invita a portare sulla tomba un secchiello d’acqua di fonte. Angelica le ricorda che i morti non coltivano desideri, ma hanno finalmente trovato la pace. Ecco allora venir fuori i sogni segreti: a Genovieffa, che pascolava le pecore prima di entrare in convento, piacerebbe più di ogni altra cosa vedere un agnellino, mentre suor Angelica, interpellata, dichiara di non avere desideri. Ma le sue compagne sanno che ella mente e narrano sottovoce quanto sanno sul suo conto, alludendo alla sua origine e alla sua punizione. Il pettegolezzo viene interrotto dalla suora infermiera, che chiede ad  Angelica, esperta di erbe, un rimedio per suor Chiara, punta dalle vespe. Rientrano poi le cercatrici portando buone provviste, che scatenano la gola di suor Dolcina. Mentre tutte spiluccano un tralcetto di ribes, la cercatrice descrive una ricca berlina parcheggiata fuori del parlatorio: subito Angelica viene colta dall’ansia, che cresce fino a che la campanella annuncia una visita. Tutte le monache attendono, ma Genovieffa si rivolge ad Angelica, che se ne sta tormentata in un angolo, e a nome di tutte le augura che sia quella visita che attende da tanti anni. La Badessa chiama Angelica. Questa è visibilmente turbata, e viene invitata a calmarsi. Entra la vecchia Zia Principessa, altera,  e comunica alla nipote che la sorella minore è in procinto di sposarsi: è venuta quindi a farle firmare una carta per dividere il patrimonio da lei amministrato dopo la morte dei genitori. Angelica invoca la sua clemenza, ma la zia prosegue implacabile, ricordandole il disonore che ha gettato sulla famiglia. Spiega poi all’infelice che, quando si raccoglie in preghiera, le riserba un solo pensiero: che abbia a espiare la colpa commessa. Ma Angelica, affranta, è tormentata dal desiderio di avere notizie del bambino. Prima di uscire, la Zia Principessa le rivela che il piccolo è morto a seguito di una malattia incurabile. Angelica dà sfogo allora a tutta la sua atroce disperazione. Non le resta che preparare una pozione di erbe velenose per togliersi la vita e dare addio al piccolo mondo che l’ha ospitata per sette anni. Beve. Ma all’improvviso si spaventa per un gesto che è contro la volontà di Dio. Mentre sta per spirare le appare, come in una visione, la Vergine, che la perdona e che spinge verso di lei il bambino.